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Blu cobalto

Sipario al blu cobalto
La città è sempre sveglia. Il caldo, umidità. Può darsi che piova allora i balconi sarà più facile pulirli. L'assenza comporta accumuli e detriti. Spesso organici. Di piante, siepi, verde improvvisato, verde curato, verde spontaneo. Un po' per maestosità, un pò per meraviglia, un po' per protezione. Un po' per illudersi che appena fuori non ci sia catrame, su catrame, su catrame.
L'uomo moderno viaggia in macchina e ha la pancia grossa. Alcuni si oppongono e vanno di corsa e così i polmoni si aprono come finestre sull'ultimo sole di ottobre.
L'assenza corrompe. Chi ne fa manifesto è debole. Tanto mondo è debole semi nascosto da corazze che all'occhio attento cedono facile il passo all'immagine più vera di un fantoccio buttato cosi sull'apparenza come una vecchia lo scialle sui reumatismi.
Tanto mondo regna lungo confini innalzati per giustificare un ego dispotico e incapace.
In ogni confine regna l'incapacità.
Il bar tabacchi è aperto fin dalle prime luci dell'alba. Fumare non è un bell'affare ma sempre meglio di quel darsi morti in vita che fa tanto sciocchezza messa in bella posta con le chiavi di casa sulla toletta traballante nell'ingresso appena entri. Se la morte in vita arde di definitivo come la morte in morte, auguriamoci che sia così e così sia. Troppa debolezza nuoce all'animo e alla ragion d'essere e soprattutto di sapere.
Sapere è un confine mobile ed elastico. In troppi sanno. Scarse lucciole solitarie sanno sapere di non sapere. Sapere è un verbo buffo se si gongola nella vanità.
Si sterilizzano case e si sterilizzano legami in un mondo ecco un po' così, alla suvvia!
Mangiamoci una fetta di liberalismo che la foglia è troppo stretta per esser brucata.
Con quanti colori si può assistere un capitombolo versando con il rosso la liquidità degli occhi lungo scoscesità che di arduo hanno poco bagnate come sono di scioccheria.
Un mondo nuovo ci aspetta e noi, i colonizzati, finiremo come Gaza. Schiacciati al centro.
Intanto, tanto sole dovrò camminare prima che il cobalto possa tingermi la nuca ascoltando il colore di una coscienza troppo vasta e troppo luminosa per essere di una donna.
Controversie muschiate al miele d'acero, amarantano il lutto e confondono i commensali.
La città è sempre sveglia e i generali dormono con un solo occhio.
Per specchiarmi mi basterebbe girarmi eppure c'è sempre qualcosa di più azzurro oltre il suono cosmico del rimpianto.
Avere un calco al posto dei denti costa come mangiare il brodo con la forchetta. Tuttavia quanta grazia, quanto amore, quanta' beltà nel gesto e nell'ultimo pasto consumato in silenzio su un marciapiede imbandito per quei pochi avventori che nel drago vedono una formica e in quattro ossa la bellezza e non il pericolo.
Non confondere lo slancio dovuto per sovraccarico di farfalle sul petto del precipizio con la sciocchitudine di chi crede di sapere senza la carezza della nuvola che spartendo il vento si gioca il potere abbandonando.
A volta abbandono è lealtà.
Molto più spesso manipolazione. L'ego spastico è solo una griglia sulla quale cuocersi a fuoco lento eppure il gioco è dei ragazzini e se ti scotti basta aprire una patata.
Non aspettare che piova per pulire i balconi che l'asse della terra cambia rotazione e gli orsi bianchi muoiono non solo perché l'uomo moderno è un grasso ciccione.
La polvere in controluce si annoda alle particelle.
Fare un nodo al fazzoletto fare un nodo alla terrazza, fare un nodo alla morte, fare un nodo alla lingua dei maghi, fare la lista della spesa che solo un ingenuo si attacca alla dimenticanza. Nulla si dimentica, tutto si contrae in un brodo quantico di un tal candore che il ghiaccio al confronto solletica appena la papilla e gli ippocampi.
Cosa potrà mai saperne un minotauro dell'elica a retroazione dissociata di un'isola di neurodivergenza che dal cencio psichiatrico si è fatta gioiello e perla subacquea.
Che gli ombrellai erano pazzi non per poesia ma per il piombo e un occhio strabico non è sempre un difetto. Le cortecce di allineano e cambiano asse e vedono che non è oro ciò che luccica ma la disperazione profonda del mattino che non si sveglia mai.
Solo la pietà giustifica il mezzo. Non bagnare il cristallino, l'argilla non è più spessa della sabbia e la musica arriva sempre da un solo orecchio: se non penso, me ne accorgo e se ci penso mi distraggo. Dormiamo ancora un po' sui balconi fioriti di abbandono. Anche la polvere ha la sua ragione se la si osserva senza interpretarla.
1. Cambiare. Modificare. Slegare. Poi andare a fare un bagno al mare. Ripulire. Farsi ingannare. La pluralità della bellezza ci sbeffeggia -: nulla fu per l'uomo così inosabile come il languore del mare che solletica il tallone.
Vorrei aprirmi il cranio e ripiegare il cervello sulle tue meningi e con lo stesso sentimento dell'acqua abbracciarti mentre ti assorbo. La tua materia. La tua sostanza. L'estremo lembo di un deserto di orchidee. La lingua immobile sulla vena giugulare.
Cambiare. Modificare. Disinibire. Rastrellare:- la zolla, le ciglia, i gusci delle lumache, le piume di un colombo, il sangue degli agnelli. Sul tutto dell'esistere, il rantolo apodittico -: svegliarsi umani, mi addormento cavalletta.

La sabbia è sola.

Il mento che trema ad ogni mentire. Ultima goccia in fondo al pozzo. Bere. Avanzare. Cadere. Rialzare. Muri sotterranei e cavità argillose. Scavare nuovi mari. Più grandi. Più clamorosi. Spinti fin dove anche il canto delle sirene finisce e non c'è più alcun riparo. In punta dei piedi su di uno spicchio d'eterno, scucirsi la bocca ed esplodere con l'eco.
2. Fa freddo. Finalmente. Il sole riprende significanza, oltre il torrido e il senz'acqua. A tratti il cielo sbiadisce in colori che l'occhio afferra ma la coscienza reprime per troppo peso, per troppa bellezza confiscata e ammassata in sgabuzzini di vettovaglie, ricordi imbrattati, profumi che affrescano le pareti di meraviglia intimorita e spossamento. 
Tutto intorno il silenzio lambisce parole che non sono più. Altezze precipitate. Sospensioni incorporee fra il tentativo e l'esistere. L'esistere e l'assistere spumoso dell'onda all'alba, del cervello al frantumato, della mente alla visione.
Quanta poesia attraversa un finalmente.
Quanto scalpitio fa la foglia mai toccata.

La parola semplifica il gesto e lo impoverisce. Il gesto complica la parola e da qualche parte la trafigge.

Lasciarsi andare allo sbiadimento prefigura oceani di tulle, gelidi, acuiformi, spigolosi. L'immagine sfiorisce e rifiorisce e l'orchidea è troppo debole per il freddo: non regge i boccioli. Questi cadono smunti sul legno bianco verso una morte inospitale.

Fa freddo nella ragione e finalmente.
Non sentire distese fiorite sapendo che sono lì, libere nel dispiegamento, nell'arrangiamento stretto nella slabbratura del senso. Quanta quotidianità separa l'angelo dal cielo.
Quanto di sopravvissuto si cuce addosso improbabile straccio e improbabile nulla, nella sopravvivenza di quel che resta di piccoli bagliori giallo lucciola sparata in fronte.

Quanta regola dettata alla poesia pur di dire, pur di ascoltarsi, pur di scolpirsi addosso abiti di bronzo. Quanta regola oltre le frattaglie umane, monopoli di egocentrismi, feccitudine e altri orpelli.
Quanta regola!
Eppure, il sole fermenta sul pavimento e il mattone si lascia fermentare: il fenomeno è di per se sereno.

Spossessamento. La calma è il ventre dello spossessamento:- la misura della lacerazione. Per tutta quella diversità che mi separa dal resto. Per esser stata carne, ustione e sole.
3. Finalmente è inverno. Il freddo accarezza di senso comignoli, fumi solidi, temperature algide e forse un pizzico di eleganza sotto i vestiti pesanti. oltre il profumo di castagna e di brioches.
Sventola nell'aria una parvenza attraversata di cobalto, senza commensali. Le tovaglie sono giusto distese sullo sporco dei corpi che infruttuosi si aggrovigliano di inutilità abbagliati dalle stelle, eppure satelliti ciechi, in movimento amorfo e congestionato lungo la bretella che strozza di veleni anche la speranza più tersa.
Corpi. Corpi e poi i corvi e poi il gabbiano straziato al centro della strada, smantellato, con le piume ridotte ad una garza venata di rosso, di ossa e budella.
La musica si accontenta di zittire, come l'olfatto, come la morte. Brucia una saponetta e l'antico del bucato apre sul nulla. Quasi una tenerezza. Quasi un deja vu che attraversa le membra di una coscienza troppo abitata, come i fili del bucato sulla stufa al cherosene. Rosa intrecciava lacrime e rosari, con le mani zuppe di stanchezza e i nervi di un cecchino pio confuso dalla polvere da sparo sulla nevrosi di un'acquasantiera.
La mente è un diagramma di flusso. A tratti si avvertono i movimenti come di aggiustamenti tettonici di zolle di ricordi obliati.
L'inconsistenza della memoria patrocina un alfabeto di emozioni mai sentite, ventriloque da qualche parte di una coscienza passata a fette dietro la porta, sotto la soglia, senza respirare.
Una fragola si scioglie sul gelo di una valanga.
La vedo bruciarsi. Ne sento il profumo sulla lingua. L'acre sotto l'arcata del cuore in fondo a sinistra.
Il freddo si fa giallo di rintocchi di mandarino e bucce d'arancia bruciate sulla stufa. L'uncinetto deforma l'indice, catenella dopo catenella, coscienze svuotate dalla paura.
A latere. 


Nel commettere continui errori di forma,
non ho mai sbagliato nel cogliere la sostanza.

Mantenere intatte fotografie imbrattate di verità, porta ad esulare dal fascino della rarefazione quando, in fondo allo sbilanciamento del bianco sul nero, una grata quadrangolare deplime e replime un'alba non ancora tramontata.
La forma getta una spuma dolce vanigliata sulla costernazione dell'Io che non potendo morire, né reclinare lo sguardo dietro il collo e neanche affacciarsi dal dorso di una farfalla, simboleggia nichilismo affollato di nullità, quando al confine con la primavera le conifere si spogliano della resina e cominciano a grattare il cielo, afflitte per il disgelo e certo timorose di una ridondante novità.
Nel non senso giace il senso sepolto delle cose inafferrabili, barlumi di sconfitte quasi allucinate, quasi imbevute di garze di miele e che, tuttavia, trionfano sul nulla come la necessità delle celle di rimanere chiuse per meglio cooptare stormi di ricordi mal obliati, forse sbiaditi, forse abbandonati sotto il materasso con scheletri di lucertole, lacrime non piante, parole di aguzzini piantate fra una molla ed un'altra di cornici slabbrate da barlumi di falsi rimpianti.
Creare è fare. Fare è creare e che Dio non voglia che mi fermi seduta su una forma.
Il mattonato blu usurato a tratti lascia passare spifferi di un vento gelido e sferzante su di una giornata grigio sereno di sensibilità destabilizzate dalla cruenza della forma che andando sopra e sotto soglia in una trafittura di ossimori e violenze, confina la parola nella bruttura spoglia di una caduta direzionata verso l'ansa delle più comuni incapacità umane.
Non sente chi sente, ma sente chi non sente.
La fenomenologia dell'Io quindi e plausibilmente gettato nello sconforto di non potersi strappare dalla faccia il volto, diluisce nel cigolio delle saracinesche e imbandisce con similarità estranee eppur esaustive, la complessità del semplice.
Non e" semplice ciò che è semplice
Dietro il semplice sovente e nauseabondo, sovente giace il solvente sovraffaticato di una resistenza rotta in partenza.
Leggere resistenza e non resistenza.
E dunque.
Il caos sublima quasi perfette semplicità in cerchi non concentrici, non risolvibili ma estensibili verso un infinito così vasto da poter esser toccato con ma.
No. Non è la forma il giusto gusto del formaggio ma il buco calcificato della della cella cella che scolpisce un'urna ammaliatrice per i sostenitori dei vermi come ospiti illustri della caciotta.
Cacciottando si contraggono così universi di costellazioni sconosciute, disposte lungo l'asse dell'altrove verso l'infinità del sublime.
Gesto è finitudine dell'azione.
Quando indico guardare dove sto puntando.
Il gesto gestisce discrepanze contigue e pone ordine fra le carte acetate di uomini allo sbaraglio. Sbaragliando l'ordine, sbadigliano gli angeli.
Non di sola forma vive un uomo.
Non potendo annichilire l'Io, non potendo trasfigurarlo si opziona allora la veridicità del nulla a scanso di equivoci, nella lucentezza di necessità devastanti. Essersi. Essersi in traduzioni scostanti. Mappe, apprendimenti, aggiustamenti. Zone di overlap, vettovaglie e posate eccentriche su tavole mai imbandite.
Conosciuta l'Aplysia Californica il tappo della Peroni non sarà più utile di un augello del tasto di un pianoforte, quando e dove il cielo sorge sottoterra.
La tregua cala così sulla forma e getta una scure di foglie di alloro cotto al dente e decotto per i senza denti, apre le porte alla disconnessione completa e totalizzante dell'infinita infinitudine del sentire del sordo, sul dolore di una terra dove non piangendo mai gli alberi non crescono e gli occhi mungono il buio di chi, non arrivando alla stella tira giù tutta la soffitta.
Quanta altezza si può raccogliere dietro una porta anche se non si respira. Tanta quanto la lunghezza del silenzio. Abbattere steccati di semicrome per opporsi all'inverosimile, alla magia senza stile, alla necrofloria, alla beatitudine degli agitati, dovrebbe ricordare al cavatappi di non agitare la bottiglia prima di aprirla.
Quanta soluttiva selezione nel dolore lacerante che senza voce acclama la disconnessione e alimenta di zolfo il polso giallo di un lumino.
Quanta grazia nella sospensione trasfigurata della violenza in dannazione e della dannazione nel requiem di una canzone biancastra.
Quanta forma è necessario rompere, aggredire e temere per palpare l'impalpabile della parola.
Per sciogliere certezze e accarezzare così il lato ruvido del velluto.
Quando tutto, finalmente, senza inizio e una fine, saprà scindersi mirabilmente in costrutti di cieli di sintomi produttivi, io potrà dire tu alla metafora semi bislacca di una vestaglia sciolta per debolezza dei polpastrelli.
Quando.
Non ora. Non allora.
Quando nel dove l'austera disciplina del dolore farà spazio al coraggio di essersi, emancipati nella meraviglia. Eteree sublimitudini, al culmine di un solo istante, brillare. E brillare. E brillare. E brillare lungo il margine di un dolore deformante. Disconnettente. Brillare.