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Grammatiche di guerra

1. Sopraggiungere
all’assenza
al peso sdrucciolo di fianco al nero e al bianco
terso e neon

Se ne parlava
isteria o alchimia, affari bislacchi sugli affari bislacchi
di una sovrabbondanza umana

Uomini senza una casa
che arrivano con tutta la loro casa
invisibili e circostanziate
nell’ossatura languida o al neon sui quali declina
leggera

al semaforo, nel tempo di due parole, seduti,
in braccio da qualche parte
senza una casa, arrivano con tutta la loro casa. 

Incontinente 
anima e straccio
il vento, ogni tanto. 

2. Lo slancio del verso declina sul movimento del braccio
Saper dondolare sulla contraddizione, uccello affamato di luce
candore e ardore, passione e graffio:- sul rantolo apodittico
fiori carnivori, pavoni con colori ipnotizzanti, cieli e cieli aperti verso la profondità dell’abominio
rantola nel fondo dell’essere un essere umano
E’ tutto qui:- in sintesi:- amore e braccio

Rubare un piccolo pino abbandonato
A furia di intingere il coltello nella piaga, ho visto la tua e mi hai derubata

3. Il sole oggi puzza di meno
L’anima non conosce superstiti

4. Distillare un tramonto
nel distillare una lacrima

precipitare è un gioco da ragazzi
la distillazione dovrebbe sistemare le coperte alla luna. 

Chiedere è davvero tanto

Il vento sferza levigando la pietra
e con la pietra la lama
e con la lama un qualcosa
che non voglio chiamare guerra e non voglio chiamare
Chiamare è davvero facile

Ti cercherò
quando all’abiezione dell’Io
troverò una scusa per una nuova grammatica
che possa divorarmi

Ora lasciami
distillare
il rosso di un ombrellone nel nulla di una lacrima
7. Ho visto persone rovinarsi attaccate alla certezza del quotidiano
di misurate passioni 
avevano più paura del dubitare che della rovina stessa.
6. Piove. Roma è chiusa in una morsa rigida e immobile, sotto un buio che ottunde. Un anno fa, per le strade si respirava un'altra malinconia. 
Cosa significa amare se stessi.
E la pelle?
Ora la malinconia è plastica. 
All'asciutto. Senza colori.
Si intestardisce come il cigolio con la cerniera della porta. 
Un certo graffio.
Un certo silenzio in sospensione fuori dal balcone
in una certa formula 
in una certa forma di buio
un qualcosa a cui non dar parola
lasciato lì nella sua esistenza
in attesa di un qualcuno che la graffi
senza tempo
il silenzio un balcone un buio
in una vita appesa senza mollette in sospensione di guerra
con una ferita fragile che piano piano si infila nell'intelletto
e la mascherina diventa una rocciosa consapevolezza.

In una faziosa quotidianità si rompe il verso
Come si scrive un silenzio di guerra
Come scrivere un graffio che riesce ad avere a malapena un appiglio
una sostanza nuova senza freschezza
allora è vero che abbiamo scavato l'invisibile, doveva arrivare
La maceria umana

7. Grondanti come lumache
scivolo l’asfalto di goccia in goccia
A volte le pulci 
governano al posto dei falchi
Affama il popolo con la farsa della fama
e gazzelle
e fichi d’India
e la ferrovia fiancheggia in bellezza il successo del germoglio
il sole poco piu’ in là dietro il muso delle vacche
Fisarmoniche antiche
l’inizio dell’idiosincrasia
del piccione
della rana
del frastuono degli ugonotti
perla dopo perla
l’incanto
pausa dopo pausa 
il silenzio
schietto contro schiaffo la bellezza

indignitosi, né lembi
lembo per lembo
imbastisco la mia dignità
l’ago non esiste
nel nulla sigilla il silenzio
la poesia antica della pietra 
8. La nebbia lignea, inumidita sulle grinze del profumo di gelsomino e qualche altra refrigeranza dell'olfatto, sotto sotto il vapore della calura. Il quartiere è vuoto. Le saracinesche tutte chiuse. Gotica quasi la solitudine delle strade 

sopra l’odore di asfalto che si scioglie su liquami ed escrementi animali,
fra topi e immondizia e una forchetta appoggiata su un piatto, il cui suono riecheggia da qualche finestra spalancata sull'ora del pranzo in una rimescolanza di silenzi, voci lontane familiari, tintillare di lingue di bambini, un aereo sovrastante le antenne e ogni tanto l'umida lungimiranza di un profumo, nonostante la nebbia.

Si affastellano vestigia e di quanto in quanto rumori e ardori e giovani e adolescenti, in zone confinate, ordine parametrico della gente sul mattone,
come se fossero franche, 
lasciate lì, in balia di se stessi, girato l'angolo, fra la strada vuota e lo smottamento umano. 

E dunque vuoto su vuoto, il vociare ubriaco, con quell'impostazione cadenzata della voce, il tono impastato, il movimento coreico delle braccia, ciondolanti su un sorriso ed un piercing.

In candidi buchi di ignoranze, vaste e tante, una bottiglia di birra sempre attaccata alla mano, nel senso sociale di una nuova urbanizzazione, fra calzini a stelle e strisce, vecchie retroguardie che renose cedono sotto il silenzio congiunto di dio e di dio. La resistenza è quella del piccione, che ridotto alla stregua di un gatto, accattona alla meno peggio residui di aperitivi e ben si guarda dal gabbiano che alla sabbia ha preso il sampietrino e stridula la sua voce si fa spazio nella contesa dei rifiuti. Allo stesso modo, segna il territorio intorno ai piattini delle gattare. Ma mai attaccherebbero un gatto. 

L'intelligenza da qualche parte riemerge. 
Una ratio, nel caos della divinazione di una doppia elica di DNA. 
Un altro anno in una guerra, un altro anno buttato
La parola si moltiplica in forme prototipiche di engrammi lessicali.
Si rivaluta il silenzio e la posizione della singola goccia d'acqua.
Forse. Ovvero sul fare nulla. L'ultimo passaggio è troppo stretto. Mitigare il silenzio, con un capostazione che dice basta e il luccicare delle scarpe delle signore sul marciapiedi della stazione, alle due del pomeriggio, in un calanco polveroso, dove il riflesso puro del bianco si riempie di materia infinitesimale e per quell'attimo l'insorgenza per l'adesione

diventa la cosa viva della materia di una idea.
Ecco. Il dire nulla. Un passo e l'ecatombe, con fuggiaschi della peggior specie in giro e la psicosi come ovatta fra la spazio e lo spazio. Tutti ammassati nei corridoi, distanti lontani in tutto il resto.
In fondo questo è lo spazio. O quando diciamo urbanistica. O quando diciamo urbanistica e sfascio umano. Il piccione che deve ben guardarsi dal gabbiano. 

Lo stridore è tutto lì. Fra due pennuti, il motore di una motocicletta, la forchetta della dirimpettaia, che potrebbe essere una qualsiasi altra posata di acciaio, ma certo corta e piena. 
Qua e la il rumore di un coperchio poggiato sulla bocca di una pentola, il traffico in lontananza, nebbia su nebbia, polvere su polvere entro un cielo che stenta la protervia della luce e lascia abbacinati gli attenti, in questa foga di nebbia e umidità.
Ogni tanto il sole accenna la sua potenza per ritirarsi presto dietro le nuvole, ben disposte lungo il suo asse. Dalle finestre semi chiuse la luce si sposta fra due fila di palazzi e un tappo di metallo che viene svitato da una bottiglia.

Si risolve così buona parte della fissazione dottrinale sul cosa scrivere e soprattutto perché farlo quando ogni singola parola è oramai strozzata e la logica del farne a meno è così fragrante con il pane del mattino. 
Le piccole abitudini quotidiane come fumare sul terrazzino dopo il caffè e demolire un mondo, morendoci dentro. Ora il vento ingrassa le nuvole e la luce si sposta. E' facile qui che si faccia scuro, fra questi palazzi troppo vicini, uno in faccia all'altro e la perseveranza di saperla attendere - la luce - fino al caldo più dirompente e solo dopo immergersi nella quiete della controra: la lavatrice ha smesso il suo canto baritonale, la quiete si distende con le guarnizioni dell'oblò e il rincuorante profumo di pulito. Il bucato si stende così sulla quiete e per un attimo la tragedia del sole oscurato dal vento, cade dalle labbra dell'attenzione fino al grumo più solitario della mente. 

Ci si appende lì. 

Su quella durità come una coccarda. 
La punta di un chiodo lungo le pareti di un infinito istante. In cui tutto si somma e nel sommarsi sparisce, così come la nebbia mossa dal vento.

Passando da una stanza all'altra i suoni delle posate e delle mestolanze dell'ora di pranzo che avanza verso il mettersi a tavola, cambia. Il risuonare delle posate è più distante. I suoni più vicini sono di quella famiglia di filippini felici del piano di sotto. Vivono in una casa che vista da fuori sembra una scatola. Ci stanno in quattro in questa scatola e sono felici. Anche i filippini sono felici. Li sento la mattina quando si svegliano che già ridono, e poi il marito esce fuori a fumare. C’è un piccolo pouf, appena fuori la porta, sul ballatoio di loro proprietà e lui esce e si siede e fuma e tutti i giorni fa così, sia che si arda che ci sia un diluvio. Poi stende. Ci sono sere in cui stende ed è sempre cordiale ma molto più dimesso della moglie. Lei sorride aperta con il sorriso aperto, di quell'apertura sugli zigomi alti che rendono ancora più sottili gli occhi: proprio il sorriso di una rotonda signora che si affaccia sulla porta. 
Per interrompere l'automatismo della ragion buia.
Rotti e rotture e rottami. Anche la didascalia surrealista mi finisce così sui polpastrelli come un cremino che si è sciolto troppo velocemente. Anche quando si mangia un gelato bisognerebbe zittire. Ma un cremino che si scioglie sulle dita è tutto quello che rimane del disincanto. Sta li e si scioglie. Uno lo guarda e gli vuole anche bene a quel milligrammo di cioccolata che cola senza sapere di essere, tanto meno partecipe di un surrettizio declino su ogni possibile tentativo di un qualcosa.

Terza persona singolare

Scrivere nella penombra. La cucina è molto buia. Piove. Ancor più scura la geometria che finisce sul tavolo. Natura morta con intenti reazionari. Scrivere in penombra. Oppure scriveva in penombra, o ancora scrive.
Terza persona singolare.
A volte vedo gente così lontana che se guardo entrambi dal di fuori
io sono una terza persona singolare:- un'altra sponda non meno reale 
per trascendersi nella demistificazione:- un luogo per la nudità.
Parola abbastanza oscura, abbastanza così ancorata ad essa stessa:- nodo gordiano da immaginare e ricreare con un peso legato al ramo di un bonsai o sarebbe un'impiccagione.
Si frammenta il pensiero nella frammentazione della luce, lungo un discorso fluido che si stacca dal cucchiaino e cade nel latte insieme al miele. Lasciare una tovaglia bianca intonsa è lo stesso discorso del tendersi all'infinito. Cambia la forma.

Una guerra in atto.
Una paura strana e claustrofobica quando mi tiro fuori di casa con un'autocertificazione per dire che vado a fare la spesa. Meno di un anno fa, andare con il viso coperto era un reato. Qualcosa accade negli intestini dell'umanità. Il telegiornale, per esempio, è una colica. Un numero molto alto di gente resta calamitata da una colica: chiamata in tutti i modi per non chiamarla.  
Fuori dalla spina più grossa di un roseto, tutto tace sul pulito del freddo, in un silenzio che piano si fa consuetudine, e mentre tutto è uguale, mettere a nudo le discrepanze, o le disconnessioni, mettere a nudo il costato.
E poi basta.
Dispiegarsi nell'oltre dell'intelletto. Un bagno buio, come la cucina.
Un bagno nudo, per portare a compimento il profumo dell'erba alta che imbavaglia il fulgore dell'acqua.
Altro non si può dire. O non poteva dire. O non può dire.
Non può dire nulla.
C'era un romanzo che diceva nulla. Altre scioccherie ingombranti, una donna e i centrini fatti all'uncinetto.
Se si può stonare, stoniamo. Si dice la donna, mentre si dice altre cose guardandosi allo specchio, corretta da una parvenza di trucco e la terza persona singolare.
Non riesce a immaginare nessuno, accanto nello specchio capace di una terza persona singolare.
A questo punto dal monte analogo lei ride. La vedo, nuda nella crudità della terza persona, costola per costola, così come l'ha o l'aveva fatta.

Il tempo del verbo. Sul tempo del verbo si basa il numero di parole utilizzate in una frase.

Cineserie.

Il romanzo finisce qui, all'inizio del secondo capitolo. Sulla parola cineseria, una matriosca che si racconta in prosa lunga. Lei ha paura della prosa lunga. Smette di ridere, mi guarda e mi lascia sola con il cucchiaino in mano.
Volendo continuare,
- Buongiorno! Buon anno!
Ci sarebbe il dirimpettaio. In accappatoio sul ballatoio. C’è sempre un uomo in accappatoio nei condomini a ballatoio. Nell'altro l'uomo l'accappatoio l'aveva rosa, andava da una porta ad un'altra e se si trovava affacciata una certa signora, l'uomo l'accappatoio rosa lo apriva.
Questo del – Buongiorno! Buon anno! L'accappatoio ce l'ha nero. La montatura nera. Parla uno strano e trascinato, molto trascinato accento, con un uomo più grande di lui. Poi c’è anche un non meglio identificato pelle scura, occhi stretti, barbetta di quelle tipiche delle pelli scure occhi stretti, guarda sornione mentre fuma, in una sorta di cambio durante la giornata nel fare da balia al vecchio in carrozzella, burbero e troppe domande.
Questo l'orizzonte prossimo dei palazzi a ballatoio. 
Piove. Il vento sferza senza grazia, piove a tratti in una monotonia nuova con le strade vuote, la gente vuota, le macchine vuote, tutto un vuoto tutto in una volta.
Tutto qui.
E basta.
10. Anche oggi fa freddo. Il cielo è torvo, quasi senza vento
La luminosità del giorno è assai particolare in questo inverno strano
i fiori già prematuri, già impazziti, gemme nuove su rami ancora secchi.
L’ardire della luce arriva fin dentro il buio della cucina
come a dire bagliore, o forse, resistenza
quella intrinseca nelle cose, nella quotidianità slabbrata, nelle maniere affaticate sotto il gioco stretto del tempo e dell’affaccendarsi degli affari umani. Ogni minuto di tutti i giorni.

L’albero spoglio sul terrazzo di quei due anziani di fronte
sembra più grande del solito

così il suo grattare sul campanile

e poi un pezzo di cielo incorniciato di tetti, antenne, stormi meravigliosi
capaci di accendere la sollecitudine
e la pelle può quantificare la differenza
fra aderenza e immanenza.

Di sabato, quando le strade più trafficate sono piene di gente
qui sotto, il silenzio diventa fattezza
di un nulla in cui necessariamente bagnarsi
così vicina attaccata alla stella

e a quella sua solitudine, senza la quale non sarebbe tale
sostanza di coraggio nell'abbandonarsi alla galassia
schizzo di follia riparatrice, ogni notte
riversa, negli occhi affacciati al balcone
romantici e incapaci
di comprenderne il senso e la propulsione

Il Tutto è debole
senza parola
è questo il limite dell'essere umano
(Tuttavia) lo stupore è figlio dell'intransigenza

quante pietre, quante farfalle!
quanto nulla!

masticato e rimasticato
per avere – in fine - un seme
o forse solo un po' di slancio e di onestà
qualcosa per spezzare la speranza
per avere una scusa
per tendere

quel fare della vita un azzardo
sempre in bilico sull'accadere
di frammenti
lucciole, perle, cose effimere
e tese
di carne, guerriglia e luce armata.

Oltre lo scudo madre della mia impenetrabilità
resto con gli occhi imbavagliati alle stelle

Frammento
I giorni passano a viso coperto e questo autunno bipolare con il mattino ghiacciato e l'ora centrale ruvida, quasi filtrata dalla secchezza delle labbra, da questa parola muta che sottile si infila in un chissà dove di alberi ancora verdi e calpestio di foglie, brulicanti frammenti di resti di vita sul caos umano che poco alla volta rapprende e fermenta sugli occhiali appannati e l'ammutinamento del tempo lì in fondo al calco della coscienza che sibila fra l'intercapedine della ragione e il vibrare di un'anima che non sento ma so che c’è.
L'affronto del quotidiano richiama alla resistenza, all'assalto, al profumo d'estate che si assopisce sull'asfalto quasi ad anticipare una prefigurazione già data, una lenta consapevolezza già saputa, una lettera mai caduta così dondolante fra il brillare degli occhi, della lama, del brillare.
Il brillare del brillare.
La gioia inconsueta e la certezza dell'incertezza.

I giorni cadono mai completamente per terra sull'ordine dei morti che governano dalla spalla sinistra un destino a punta di spillo.

Tutto colpisce. Nulla ferisce. La parola si fa strada e poi si perde nell'inconcludenza di quattro ossa umane, la paura che cuce la storia, le farfalle che si vedono di rado e la musica miraggio o forse sogno. Sogno o forse oltre. O forse un bel nulla.

E detto il nulla sospira la terra sulla frana.
E detto il nulla commisera l'ascia la guerra.
E detto il nulla la calza di smaglia.

Ho detto il nulla ancora una volta.
La squama del dinosauro affonda sul fondo dell'alambicco.
Una volta avevo i tetti e una nudità vestita con la mia faccia.
Ora la faccia non la vedo più neanche allo specchio.

Gli alberi declamano il frammento.
Il frammento mi tiene in bocca.
11. Nell'impossibilità del dire
con i pensieri affollati in mezz'ora di tempo
prematuro è il buio sul nulla che è stato già detto
sull'ordine del giorno delle piccole meschinità quotidiane
il serpeggiare di folle variopinte cambia forma nell'informità della massa
diventata acqua
l'avanzare dei barconi e delle guerre
Tocca misurarsi
con personaggi terreni
per pena e dispetto di un dio prospettato
pur di non rinunciare ad un viaggio sui tetti
e la melissa bolle sul fornello sbuffando ricordi di anime di zucchero
ed ossa di fragili verbi
Nell'impossibilità del dire
va avanti chi conosce il maggior numero di parole
E se si arriva stanchi si rimane muti

Stanchezza

Si muove tutto lentamente
saliva che scivola sul dorso di un francobollo

L’aria pesa 
di stantio 
risaputo 
già vissuto 
e le ore scuotono i minuti 
- umiliandoli - 
 
“Impossibile inviare messaggi”
i controlli aerei 
opprimono l’etere 
e il sentire è piccolo di stanchezza e inutilità

Inutile in un mondo 
pieno di bocche da sfamare 
e derrate alimentari decise a tavolino 
dal vaniloquio eloquente 
di potenti indifferenti. 
 
Una caffettiera sbuffa 
un'attesa pena 
una bimba piange 
e nello stesso istante
probabilmente 
una donna ride 
un ragazzo esplode 
due corpi si amano 
 
E non bastano sigarette 
non bastano più 

E forse manco le stelle 
12. E' un'impellenza scrivere senza tregua, fino quasi ad ammazzarsi non tanto di parola quanto di silenzio e gesto finalizzato ad un tratto. 
Bisogna mangiare e vuoi scrivere
bisogna lavarsi e vuoi scrivere
bisogna ritirare il bucato, fare la spesa, passare in tintoria e vuoi solo scrivere. 
Ti fermi e la parola invece è tutta rotta 
sparpagliata qua e là fra la comprensione e l'inutilità 
più piccola della polvere
più dolente di una spaccatura
tutta spezzata, rovinata.
Il pensiero comincia a scollarsi dal cervello come ruggine dai tubi, anche la musica si è spaccata tutta nota dopo nota
goccia dopo goccia
ritorna uno scricchiolio antico, già masticato, già pianto, 
già distratto dal rotolare di tutti i giorni 
minuto per minuto
accadente per accadere
è accaduto
Troppa attenzione, troppo amore, troppa dissolvenza, troppa gioia, troppo tutto 
Il linlium muore comunque
la sterlizia apre la sua bocca comunque
C'è tanto silenzio da doversi tappare le orecchie
tanta ignoranza da doversi tappare il naso
Un bambino molto piccolo, con le mani piccole e i piedi piccolissimi ride pieno pieno come solo un bambino molto piccolo
Tutti alla fine ridono sull'autobus fatiscente
anche la signora sprucida con le rughe sprucide
quella con il velo, il signore cieco e il suo accompagnatore
quello che non si è alzato
l'anziano che gli cede il suo posto
e intanto il piccolino ride, fa ridere tutti di contagio e forse un pò di frustrazione
dagli occhi cadono due piccoli germogli di lacrima
non fanno in tempo a seguire la linea del viso 
sono già estinte
né solco, né labbro, né nulla
solo questa malata impellenza senza tregua, senza cura, senza ristagni o forbici o battiture sensate
solo questa fame raminga, autodidatta, senza stomaco e senza intestini
Senza il saper andar a capo, senza rispetto dell'andare a capo
solo un punto di interpunzione e l'insonnia tenuta insieme dall'impellenza di non dire ma disegnare tratti e tratti di esistenza 
non per comunicare, non per mettere il rosso al semaforo e neanche lo smalto sul nulla
E' un sempre di una strana malattia
segno come un gesto totale che possa racchiudere tutto il nulla vuoto di una esistenza fin troppo piena
fin troppo traboccante
fin troppo bozza di una bozza di una copia
di me stessa, così sempre affamata, delirante, lontana
Il mondo si aggroviglia fra una guerra e un altra
parole spese per discutere dell'indiscutibile
la guerra è guerra e la morte non è un discorso adatto al convegno di bocche annoiate
Aprire la mano e trovarci solo un palmo
dita che vorrebbero volare ma che rimangono ferme
trattenute da un qualcosa di orribile e zavorrante
sembra che la disperazione più cieca fiorisca fra quel nulla
e la grammatura dell'invisibile violato
E' sempre un'impellenza 
anche quando l'impellenza stessa ti è stata rubata
La tazzina è rossa 
il caffè è freddo
e questo è quanto
13. Un dollaro
e poi un bambino
Uno shekel
e poi un bambino
Un euro italiano
e poi un bambino
Un euro francese
e poi un bambino
Un euro tedesco
e poi un bambino
Una sterlina
e poi un bambino
Sei dinari
l’inflazione doppia il peso nella sacca di Giuda
Caronte intoppa con il naso contro i remi
lo sciacquettio della pala e tonf!
Le monete cadono nella fossa degli occhi
come una slot machine

14. La vecchietta e il suo Alzheimer a braccetto
più magra di sempre, chiusa in quel suo rapimento.
Crisi. Disorientamento. Pianto.
Dolori lancinanti alla pancia, piegata con il mento sulle ginocchia e le braccia intorno al ventre.
I capelli arruffati. Scomposti. Aridi e sudati sul pallore della faccia. Piegata sul water.
Piange, contorta nei dolori.
La burocrazia. La gerarchia. Permessi. Concessioni. Valutazioni. Costi. Telefonate.
Le ore passano.
Legge e decisione:- un dito tutto su per l’ano. Svuotarlo con la mano.
Sollievo della vecchietta
sollevati gli occhi al cielo, moto commosso:- la carnosa trasparenza di una medusa:- torna ancora più bambina tornando in sé, e il pianto ancora più corrotto.
Scusate,
chi siete,
non so cosa ho fatto. Una volta la facevo sola. Posso stare sola. Posso fare sola.
Scusate.
Grazie.
Scusatemi. Vi bacio le mani che hanno osato tanto. Grazie. Scusate e piange.
Porcellana disciolta nella nebbia su un pallore mortale e le labbra violacee.

Un attimo prima del silenzio le piante crescono davanti alle soglie, abbandonate sotto il guano dei piccioni. La forma semplice di un male contorto. Il disastro dell’aggettivo sull’anima.
– Il medico sta arrivando
– Abbiamo risolto
15. Ogni volta mi avvicini credendo di portermi confinare fra certezze spaiate, argini di argilla e silenzi che credi muti. Ogni volta, sconfino senza volerlo, senza saperlo e cosi' ti convinci che allotanandomi si possa trafugare la naturalezza. 

Non a tutti e' dato mangiare scampoli di cielo rattoppati alla meno peggio.