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Versi Slegati

La stagione del vento
Il vento non si ferma mai in questi giorni e a volte in verità è la lacerazione è il frammento è quella scheggia come di un vetro rotto che riflette un preciso e circoscritto angolo e per un attimo gli occhi per un attimo la chiarezza di una composta schizofrenia
Nessuna stima nessun orgoglio alcuna vanità Ho letto un libro di Artaud ed era completamente pazzo mai irragionevole troppo fragile troppo esposto per una poesia della purezza per una rivendicazione senza uditori per questi giorni in cui il vento non si ferma mai e dal cielo piovono razzi dai balconi braccia e sorrisi paralizzati
E non è lo scoppio della bomba non il roboare dei razzi non il fragore più del terrore può l’attesa la distanza inter-lancetta fra il lancio di un Qassam e la culla di un bambino con l’orecchio leso teso sull’arrivo
Non è la bomba è l'effetto dell'anticipazione di una precisa indeterminazione il silenzio che causa la sordità l’immobilità il respiro che non deve far rumore Potenziamento a lungo termine disatteso nella regola serena della serena biologia del crescere
E' l’evidenza l’estremo opposto dell’irrazionalità la plasticità delle sinapsi e quello che avanza resti di cibaglie e di morale retorica filosofia da banco
Cori a più voci per confondere per rifare il verso del caos per coprire resti umani disperazioni cosmiche segreti blindati Occhi infiniti occhi dimenticati
Allora ad un certo punto in bocca solo i denti in bocca solo i silenzi in bocca solo tre parole - Un bambino bruciato e tutta la forma che cade la storia che cade i cervelli che cadono cadevano cadiamo ancora a meno venti gradi di buio tre ragazzi uccisi un bambino per vendetta
Tre per uno i conti non tornano ci sono gli invisibili i figli dell’attesa l’infanzia negata nella distanza inter-lancetta fra un razzo di maggiore gittata e il sibilo del vento E dunque la parola una tentata storpia rivolta una parola senza speranza Nessuna armata nuda è la decisione Oltre i fatti i potenti sono teschi i rifugi umanitari effetti collaterali Lo storpio rivolta la parola la parola rivolta la poesia la poesia rivolta se stessa e piange piange assente la sua assenza piange il vento che non cambia verso Piange la poesia per ogni bambino morto per ogni infanzia offesa

(Ai bambini terrorizzati e ammazzati nel Luglio – Agosto 2014)
1. Davanti al supermercato
il caldo fa spazio a un po' frescura
sul viso tondo della signora
occhi semplici mani grassotte
Suonano una tastiera elettrica
raccoglie un po' di monete e un po' di morte.
Un bambino occhi grandi, corpo minuto sta seduto nel carrello per la spesa,
la mamma lo spinge con il capo coperto.
Il bambino sgambetta, mi fa gli occhiolini
A suon di musica
Sorride e gioca, a suon di musica
gli rifaccio gli occhiolini a suon di musica
Qualcosa mi commuove nel ritmo del suo sorriso sdentato
Ti è toccato un destino diverso, con guerre diverse
Se non sarai veloce come quell’occhietto
rimarrai chiuso, dietro un banco, incompreso e annoiato
Tagliato via, ancora prima di entrare
Stasera però, a letto presto. Dopo aver cenato con mamma e papà.
Nessuno vi ammazzerà. Non stanotte.
Magari poco alla volta. Ma non una bomba. Non stanotte.
Nella terra dei cani pazzi


I

Le parole sono e devono essere.

Tautologia minima. Vincolo non risolvibile. Regola delle menti. L’imperativo. L’esecuzione. La necessità -:di farmi impronta. Traccia madre ed effimera di una speranza -:del solco, dell’intercapedine. Dell’incircoscrivibile racchiuso in una crepa e del vento che in esso si insinua.
Io. L’altro.
Ossessione fossile. Atarassia del Tronco e dell’idea di me che si specchia tutti i giorni in questa vasca di umori violenti e poetici. Totali e devastanti. Invisibili e carnali.
La proposizione che si ripropone nella lacerazione dell’istante.
Io e questa danza nuda e chiusa. E fuori l’estroflessione contraddittoria di me, che appicca il fuoco alle stelle, per farle esplodere. E ritornare a vivere nell’implosione.
La giusta vita.
La giusta morte.
La giusta distanza fra me – il non me – e la coordinazione allocentrica dell’ego.
Il punto d’innesco di tutte le mattine.
Io. L’impulsività delle parti a travalicare la somma e farmi occhio dentro l’occhio.
Vi manca un occhio.
Vi presto il mio per troppa urgenza di entrare. Non tanto per entrare quanto poi per uscire
– successivamente – da queste infinite porte, confinate dove il tempo annichilisce e lo scacco e lo smacco conclamati nel tacco di un tango, che schiaccia una noce posta nella mano di un bambino.
Io. Il nome. La collisione. L’identità e l’essere. E queste mani in cui tutti i giorni pisciano gli angeli. Gli angeli di Dio. Dell’immanenza. Dell’aderenza alla porosità dell’universo. Della volta celeste che glorificandoci ci esilia nell’altro -:la garza -:il cotone consunto dalla costernazione della Storia -:la crepa nella costola di Cristo, che si incrina sotto il peso della non pietà. Della miserevolzza. Dell’oscurità.
Io. Il guardiano che continua a rispondere e il viandante che continua a chiedere.
La notte non finirà. Non è mai iniziata. Manca spazio per il giorno, in questo pozzo di parole smembrate, di specchi rotti, di aberrazioni, di abrasioni, fra le mie cosce ed il resto del mondo ed il resto del mondo con se stesso
Io e le ossa. E tutti gli occhi. E tutte le bocche. E tutte le dita. E tutti i capelli. E tutti i denti. E tutti gli orpelli e le lingue che leccano fiori ai margini dei marciapiedi.

E tutto il marcio che sconquassa e che redime, questa mia vita neurotica e bestiale.
Io. La virulenza dell’essere in un solo respiro. L’esaltazione. Le Lamie. Le lame. La comunanza dei diavoli e delle fate. L’austerità della cicuta nel profumo delle ortensie.
Le ginocchia e la caduta.
Claudio e la terra dei cani pazzi, bruciati al sole con una rosa in bocca.


II

Magri eravamo. Magrissimi camminavamo un braccio stretto sotto il braccio dell’altro, silhouette attraverso gli spettri. I miei. I tuoi. Quelli di tutti gli altri. Veri. Presunti. Mal percepiti. Mispercepiti. L’abnegazione dell’essere a dispetto dall’esaltazione della forma, che per le nostre vie corrispondeva alla non forma, aberrante ed immaginifica della malattia.
Matriosche fatte di specchi. Fuochi fatui lungo gli smerigli e infinite invisibili mirabolanti intercapedini in cui filtrare cervelli. Inabissando i neuroni in altri neuroni -:solidità della materia grigia. Compiacenza di Dio. Prevaricazione della forma molecolare a dispetto della forma sociale
-:Darwin sta giocando a palla con un gattino. Lesionismo. Perfetto autolesionismo che assurge a formula d’arte e tutti i vostri parossismi indicibili ed interdetti, nella mia testa.
Orgia di sinestesie mentre danzo a piedi nudi su d’io.
Io. Tu. L’anoressia, la bulimia e un bagno. La schizofrenia in una stanza di due metri quadri. Lo squarcio dell’urlo e del vomito nel collo del water e la geografia dell’essere un umano disegnata dagli umori incrostati sulle piastrelle. Tempo. Stratificazione della paura -:necessità nel non luogo della malattia. Spazio. Non c’è spazio dove le braccia brancolano sole.
E la mia mano, ancora oggi incapace di scrivermi per scriverti, sotto il giogo di me stessa in questo spot-coscienza che tu hai contaminato, per poi svanire. Lasciando sul mattone una piuma di angelo. Nel grembo della madre di tutte le madri. Nell’utero della sacrosanta ed inscalfibile evidenza biochimica dell’essere.
Un cromosoma che non si è disgiunto.
Un numero maggioritario oltre un invisibile equatore . I tuoi occhi si sono sviluppati “a mandorla” e il tuo corpo è stato protocollato come Down. Un timbro su di una marca da bollo a sottoscrivere una mancata autorizzazione ad esistere. La tua.
E tutta la giustificazione del popolo di Dio a maltrattarti. Poco a poco nella testa. Fino a farti diventare un cane pazzo.
E tutta la redenzione del Regno dei Cieli quando sarai morto perché ora ti stiamo ammazzando noi. Nel silenzio, chiuso in una stanza. In un bagno. Con le piaghe da decubito a forma di water.
Unico nel tuo destino. La forma che si riconsegna alla forma per cercare di salvare il salvabile sotto la congiunzione effimera e vana di morte e poesia.
Maltrattato. Non curato. Ignorato. Silenziato.
E la crocifissione della parola, mai bastante.
Io. Tu e le ossa. L’esile dell’esistere nell’esilio di una casa di cura.

Io. Claudio. Il mio amico. E queste lacrime che dopo anni ancora non si asciugano negli occhi, per quell’ingiustizia mai vendicata.
Io. La cura. La sollecitudine. La tentata denuncia e le braccia pronti ad accoglierti per ogni volta che ti hanno picchiato. Per tutte le volte in cui sei stato ignorato.
Tu. Un figlio. Un essere. Un indifeso.
Tu. E tutte le lacrime di tutte le madri di tutte le ere.
Io e la bocca piena di terra. Di quell’argilla invisibile dove i cani muoiono pazzi bruciati al sole con una rosa in bocca.
Tu e io. E i tuoi occhi che ora sono i miei.

(A te, che sei me)